Intervista a Mahout

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I Mahout nascono a Pinerolo, piccola cittadina della provincia piemontese storicamente impregnata di sottocultura reggae che ha dato i natali alla più longeva band reggae in Italia, gli Africa Unite, e ad una delle esperienze più brevi e intense del punknostrano anni‘90, i Fichissimi. Cresciuti in un simile contesto i Mahout si formano con la precisa intenzione di fondere il reggae di stampo giamaicano con diverse altre influenze che spaziano dal punk californiano, al garage, al funk. Il risultato è un sound fresco e personale, difficile da ricondurre ad un genere specifico, che ondeggia continuamente fra morbidezza black e asprezza bianca.

D. Parlatemi del vostro primo album My Heart is a Stoner. Perché la scelta di questo titolo?

Emi. Il titolo ha un doppio significato. Da un lato pensiamo che in fondo sia principalmente il cuore delle persone a muovere le loro decisioni, consapevolmente o meno. La ricerca (a volte spasmodica e disordinata) di emozioni forti, la ricerca, per alcune persone infinita, di essere riconosciute e amate. In questo senso il cuore è un “tossico” di emozioni, di cui raramente può fare a meno. Dall’altro lato, per forza di cose, osserviamo come molti intorno a noi e fra di noi ricorrano all’uso di svariate sostanze per motivi che possono variare dal semplice scopo ricreativo e di evasione ludica al tentativo di lenire e medicare sofferenze intime di varia natura, anestetizzandosi l’anima. Pensiamo che alla base ci sia sempre la ricerca, conscia o meno, di un surrogato di riconoscimento e amore, qualsiasi ne sia la forma.

D. Nomi coinvolti nel progetto?

Benz. L’album è stato suonato da Emi (voce, chitarra ritmica), Enrico Battaglino (batteria), Enrico Ferrero (basso), Peter Truffa (tastiere), Larry McDonald (percussioni). Io l’ho prodotto e ho suonato le chitarre, alcune tastiere aggiuntive e ho fatto il programming dove c’è. Peter e Larry sono due amici. Con Peter (New York Ska Jazz Ensemble, The Bluebeaters) io e Pakko (il nostro bassista) abbiamo suonato in passato negli Young Lions – la band di Mr. T-Bone – e poi io ho avuto un’altra band con lui ed altri elementi dei Bluebeaters, The Sabaudians, tutte band di ska ed early reggae. Peter oltretutto ha vissuto a Pinerolo per anni e ha sempre avuto un rapporto di grande stima anche con Emi, lui ha sempre creduto molto nel progetto Mahout.
Con Larry invece io suono da qualche anno in occasione dei tour europei della band che ha co-fondato con Dave Hillyard (The Slackers), i Rocksteady 7.
Pensare di farli suonare nel disco come ospiti è stato quindi estremamente naturale.
L’album è stato registrato da Simone Squillario, che si è occupato anche di mix e mastering, da Federico Puttilli, che è stato assistente di registrazione e da me.
La produzione è stata fatta in 3 studi del torinese/pinerolese: Hybrid Studio, LaCurt Studio e Kuma Rec Studio.

D. Come avete cominciato a suonare?

E. Come tanti, abbiamo cominciato come dei ragazzi che hanno voglia di fare musica e si trovano a suonare e provano a fare quello che gli piacerebbe ascoltare. I Mahout sono nati nella testa dei componenti della prima formazione della band in un tempo lontanissimo nel passato quasi impossibile da definire con precisione, con la precisa intenzione di fondere i due generi che ci hanno maggiormente influenzato da adolescenti, ovvero il reggae della foundation con la alternative wave americana dell’epoca, che spaziava per noi dai vari sound cupi ma vitalissimi di Seattle e del nordovest americano in generale, fino a certo punk californiano che iniziava già ad incorporare alcuni elementi giamaicani (Sublime e Rancid su tutti).

D. Quali sono le principali influenze che hanno creato il vostro sound molto peculiare?

B. Parlando di Italia le nostre principali influenze sono state quelle locali, noi siamo di Pinerolo dove è nata la più longeva band reggae italiana, gli Africa Unite, di cui io e Pakko abbiamo fatto parte per anni. Pinerolo ha anche dato i natali ad una delle esperienze più brevi e intense del punk nostrano anni‘90, i Fichissimi. Cresciuti in questo contesto socio-culturale e musicale credo sia stato naturale creare questo sound che è una fusione tra il reggae di stampo giamaicano e le diverse altre influenze che spaziano dal punk californiano, al garage, al funk.
Parlando invece di influenze derivanti dalla musica estera noi, più che dall’esempio dei Clash o di altre band inglesi che quella fusione musicale l’hanno realizzata con risultati grandissimi e meravigliosi, siamo stati sicuramente più “toccati” dalla musica delle band della scena punk californiana anni ’90 che incorporavano elementi della musica giamaicana, come i Sublime o i Rancid.

D. Ma vi sentite un’anima più reggae o punk?

B. Credo siano entrambe presenti allo stesso modo, veramente, nel senso che a     livello musicale ci anima una grande passione sia per il punk (ma anche per il grunge) sia per il reggae (siamo stati tutti folgorati ad un certo punto dalla musica di Marley) e a livello di attitudine prendiamo dal punk la rabbia e il fatto di veicolare dissenso e li sublimiamo con la trance e la “catarsi” che genera la musica reggae. Il concetto è quello di “ballare sulle macerie”, come lo definiamo spesso noi, ed è un concetto caro praticamente a tutte le culture folk-popolari del Mondo: la musica, soprattutto quando si performa dal vivo, è un momento sociale, un rituale collettivo dove si combatte il disagio attraverso la condivisione, la danza e la potenza delle vibrazioni del suono. In questo senso anche il punk propone una ripetitività nella scrittura musicale che porta ad una forma di trance. Punk e reggae si sono sempre piaciuti, tant’è che nella seconda metà degli anni ’70 in UK avvenne il gemellaggio, in un certo senso, dei due movimenti.
Insomma, citando Marley, il nostro è un Punky reggae party.

D. Scena reggae e scena punk in Italia: differenze? Punti in comune? Come se la passano?

R. Sono due scene vive con band nuove che le trasportano nel futuro e qualche band del passato che incrollabile e impavida continua a suonare. Poi qualche reunion apprezzatissima, è il momento delle reunion e vale soprattutto per la scena punk. Anche in Italia la scena reggae e quella punk sono legate: se si torna indietro negli anni e si apre il discorso anche alla scena rock questa affermazione risulta ancora più vera.
In sostanza la scena delle band underground degli anni ’90 era una sola, al di là dei generi: le band di quel periodo erano spessissimo “amiche” e legate tra loro.
Parlando invece del presente, ci sono progetti che ci piacciono nella scena punk attuale, ad esempio i Bull Brigade, o i Madbeat.
Nella scena reggae citiamo invece i nostri compagni di etichetta, i Mellow Mood e Forelock, per il talento vocale e l’uso del Patwa giamaicano, come anche Lion D e Raphael nel suo momento reggae. E ovviamente Paolo Baldini. Insomma la scena è calda.

D. Con chi vi piacerebbe suonare o collaborare?

R. Ci piacerebbe, per dire, collaborare con Hollie Cook…e se sognare è concesso potremmo dire anche Little Simz, che da anni ci fa impazzire, o King Krule.

D. Come è nato il vostro sodalizio artistico con La Tempesta Dub?

R. Nella scena ci si conosce, e c’è sempre stata una grande stima da parte nostra per quello che fanno loro come label e come artisti. Abbiamo proposto loro l’album e abbiamo ricevuto in risposta un grande entusiasmo. È prezioso quando ci si trova così, sono incastri abbastanza magici. È nata una bellissima collaborazione con un’energia meravigliosa, che infatti sta già dando nuovi frutti che vedrete e sentirete nel prossimo futuro.

D. Prossimi progetti?

R. Abbiamo un singolo quasi pronto per l’uscita ma non possiamo ancora svelare niente.
Stiamo anche scrivendo nuova musica, che uscirà nel corso di quest’anno.

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